Il tennis, lo ripetiamo sempre, nasconde tante storie. Alcune sono curiose, altre sono divertenti, altre sconcertanti ed altre ancora addirittura tragiche. Quella che raccontiamo oggi, basandoci su un racconto di oltre 40 anni fa del giornalista John Cottrell, di Sports Illustrated, appartiene all'ultima categoria.
In
un caldo pomeriggio dell'aprile del 1934 la nave di linea Hakone
Maru, appena uscita da Singapore, si trovava sullo stretto di Malacca
in direzione di Penang. Mentre i passeggeri oziavano nella lounge o
al bar dopo la cena, chiacchierando, ordinando qualcosa da bere,
leggendo o giocando a carte, il campione di tennis Jiro Sato, il più
celebrato sportivo giapponese del momento, si era rinchiuso al piano
di sotto nella sua cabina di prima classe. Laggiù, vestito di
flanella bianca e con la giacca ufficiale della sua squadra nazionale
di Coppa Davis si sottoponeva ad una sorta di rituale di
“auto-flagellazione”, davanti ad un sacrario improvvisato. Su un
tavolino utilizzato come altare, aveva posizionato un vaso con delle
orchidee, le fotografie del padre e della fidanzata e due candele
accese. Un piattino contenente del cibo giapponese era piazzato nel
centro del tavolo, come in segno di offerta; alle sue spalle aveva
appeso la bandiera del Sol Levante.
Sulle
sue spalle sentiva il peso della responsabilità, delle aspettative
che un'intera nazione nutriva nei suoi confronti. Nel 1932 e 1933
Sato aveva mostrato il suo valore a livello internazionale,
sconfiggendo campioni conclamati del livello di Cochet, Crawford,
Wood, Vines ed anche il grande Fred Perry. Semifinalista in Australia
(1932), al Roland Garros (1931 e 1933) ed a Wimbledon (1932 e 1933),
in assenza di ranking ufficiali, era stimato come il terzo giocatore
del mondo. Ora si era imbarcato su una nave diretta in Europa per
guidare il Giappone in un incontro di Coppa Davis contro l'Australia
e per tentare un nuovo assalto all'ambita corona di Wimbledon. Ma
questo peso lo schiacciava. Chiuso nella solitudine della sua cabina
non pregava per la vittoria, ma per il perdono.
E'
difficile capire perché un atleta di solo 26 anni, tanto forte,
ammirato e combattivo, con una vita felice, con alle porte un
imminente matrimonio con la sua bellissima fidanzata, la tennista
connazionale Sanaye Okada, abbia improvvisamente abbandonato ogni
speranza. Apprezzato e stimato da tutti, rispettato da colleghi ed
addetti a lavori, per la sua classe e sportività, da tutti preso ad
esempio, Sato aveva probabilmente una personalità disturbata.
Attorno
alle 23,30 il compagno Jiro Yamagishi entrò nella cabina, trovandola
vuota. Sul piccolo tavolino-altare erano visibili due lettere. Una
indirizzata all'intero team di Coppa Davis spiegava quanto Sato,
reduce da una polmonite, fosse preoccupato per il suo stato “Non
credo potrei essere capace di aiutare la nostra squadra. Al
contrario, potrei essere fonte di impiccio e preoccupazione. Date il
massimo per fare meglio di ciò che avrei potuto fare. Io prego per
voi e credo in voi. Sarò al vostro fianco in campo, con lo spirito”.
Nella seconda lettera, diretta al capitano della nave, si scusava per
i guai e l'imbarazzo che il suo gesto avrebbe potuto provocare.
Ogni
ricerca fu vana. Jiro Sato non fu mai ritrovato.
Ho letto molti anni fa sulla rivista Il Grande Tennis una lunga storia di Sato che occupava 50 pagine. L'autore mi sembra sia Massimo Di Marco
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