Particolare
la storia di questo giocatore di Barcellona, classe 1962, emerso
all'improvviso, sparito, tornato a galla e quindi sparito
definitivamente. Diventato campione spagnolo juniores nel 1980,
l’anno dopo decise di diventare professionista. Dopo un paio di
anni di “riscaldamento”, nel 1983 iniziò a raccogliere i primi
risultati di rilevo, sulla prediletta terra rossa, prima in alcuni
challenger italiani e poi nei tornei su terra verde-grigia americana, fino
alla sua prima finale ATP, persa a Bordeaux con il peruviano Pablo
Arraya, che lo portò fra i primi 70 del mondo. L’anno seguente, il
1984, fu quello dell’esplosione: dopo un buon inizio, ad aprile
trovò un paio di settimane magiche nelle quali vinse il primo titolo
ATP ad Aix-en-Provence (sul connazionale Fernando Luna) e si ripeté
addirittura nell'importantissimo torneo di Amburgo, infilando uno dopo
l’altro Vilas, Noah e l’allora fortissimo Sundstrom; il
rendimento crebbe ancora e dopo alcuni buoni risultati nei tornei
americani su terra, Aguilera si arrampicò sino al 7° posto del
ranking mondiale.
Ma pian piano emersero i limiti del suo tennis di
regolarità, classico ed elegante, ma a tratti piuttosto leggero, e
le sue debolezze caratteriali. Anziché le necessarie conferme
arrivarono delusioni in serie: il 1984 finì in discesa e nel 1985 si
susseguirono una serie di sconfitte con avversari per lui non impossibili (Ganzabal,
Oresar, Ingaramo, Gunnarsson, Antonitsch) La semifinale a Ginevra ed
i quarti a Boston lo tennero a malapena fra i primi 100, ma ancora
per poco. Il 1986 fu un anno disastroso: una serie infinita di
sconfitte al primo turno, spesso con avversari troppo forti (Lendl,
Edberg, Nystrom, Becker, K.Carlsson) ma anche con giocatori
ampiamente alla sua portata (Wostenholme, Maciel, Stenlund, Vajda,
Armellini), ne minò la fiducia facendolo precipitare fuori dai primi
200. Gli anni seguenti si arrabattò come poté in challenger e
qualificazioni di tornei minori, senza raccogliere granché, sino a
quando nel marzo del 1989, a sorpresa, tornò a far parlare di
sé, vincendo il torneo ATP di Bari (su Marian Vajda, attuale coach
di Djokovic) e giocando alcuni altri buoni tornei (anche un'altra
finale ATP, a Saint Vincent, persa con l'argentino Davin): ritrovò
un po’ di fiducia e, grazie anche a vittorie su giocatori di
rilievo come Mecir, Ivanisevic e Mancini rientrò fra i primi 60 del
mondo. Ma la vera “resurrezione” arrivò l’anno dopo: una
stagione sulla terra di altissimo profilo lo riportò a ridosso dei
primi dieci. Questi i risultati: semifinale a Estoril, successo
nell’ATP di Nizza (battendo Hlasek, Rosset e Forget), quarti a
Montecarlo (sconfisse Buguera ed Edberg, prima di cedere a Muster) e
soprattutto un nuovo trionfo al Master Series di Amburgo (infilò uno
dopo l’altro niente di meno che Ivanisevic, Chang, Courier,
Gustafsson, Forget ed in finale polverizzò Boris Becker, dandogli
una lezione di tennis su terra, col punteggio di 6-1 6-0 7-6). Superò
anche due turni e Wimbledon e giocò altre due finali ATP, ancora in
Italia, a Sanremo (perse con Arrese) e Palermo (perse con Davin),
chiudendo l’anno ampiamente fra i primi 20 del mondo! L’anno dopo
però, una nuova crisi di risultati, anche causata da gravi problemi
fisici, lo fece nuovamente precipitare nel ranking, sino alla
decisione drastica, a fine stagione, di abbandonare il mondo del
tennis a soli 29 anni.
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